Su Avvisi Orali, Sorveglianza Speciale e il processo ai compagni di Torino

Era il 7 luglio del 2008, quando 5 studenti fiorentini venivano sequestrati in questura per 12 ore dopo essere stati pedinati e fermati dagli agenti della Digos mentre cercavano di raggiungere il corteo contro il G8 a Roma. Lo stesso giorno polizia faceva irruzzione, senza mandato della magistratura, nelle loro case per perquisirle alla ricerca di "armi ed esplosivi". Caschi, sottocaschi, felpe, attrezzi per il motorino e foglietti scarabocchiati è tutto ciò che veniva trovato e sequestrato.
 
Un compagno, però, esce dalla questura con la notifica di un "Avviso Orale": un invito formale a cambiare la propria condotta delittuosa firmata dal Prefetto in persona. Il sogetto "socialmente pericoloso" viene così ammonito a non frequentare più cortei, assemblee pubbliche e persone pregiudicate, oltre che a commettere qualsiasi tipo di reato. Nel caso in cui ciò non accada, l’ "avvisato" viene candidato per il "Regime di Sorveglianza Speciale" (art.1 del codice Rocco, legge ereditata dal ventennio fascista): una condanna ad una (non)vita da controllato e spiato, un vita di obblighi (come quelli di rincasare entro una certa ora la sera, firmare periodicamente in questura ecc) e divieti "necessari alle esigenze di difesa sociale" decisi arbitrariamente dal tribunale, che vanno dal "divieto di trattenersi in osterie" a quello di continuare ogni attività politica. Violare la Sorveglianza Speciale, infine, vuol dire finire in carcere senza alcun processo. Ad essere giudicati non sono i reati compiuti, ma l’imputato stesso in quanto persona scomoda, eversiva, "pericolosa" (per chi?).

Ma Firenze non è l’unico posto in cui questi provvedimenti si sprecano contro chi continua a lottare e non ha nessuna intenzione di arrendersi.

Qualche giorno fa, a Torino, dentro ad un Palazzo di Giustizia blindatissimo, si è tenuta l’udienza (conclusasi con un rinvio del giudizio) per la Sorveglianza Speciale dei due redattori di //Macerie//. Sotto accusa è la loro attività di informazione sui Cpt/Cie, democratici lager per immigrati, e la loro solidale complicità con tutti i prigionieri che, sempre più spesso, decidono di ribellarsi e di lottare per la libertà.

Riportiamo qui le dichiarazioni in tribunale dei due comapagni, a cui va la nostra solidarietà e un grande abbraccio.

 


Trovo imbarazzante dovermi difendere dall’accusa di rappresentare un pericolo per la tranquillità di questo ordine sociale. Per non cadere nel ridicolo, non lo farò. Ma mi preme precisare una cosa: rifiuto categoricamente di essere definito “leader” di un qualsiasi movimento. Se lo scrive un giornalista, è solo una volgarità che non merita neanche una risposta. Ma se lo scrive la Questura, allora si tratta un grossolano errore. Chi lo dice non ha capito assolutamente nulla di come pensano, si organizzano e agiscono gli anarchici. Ed è un bene che sia così: non intendo fornire al nemico ulteriori elementi utili alla comprensione. Quanto alle rivolte nei lager per gli sfruttati stranieri, rivolte che io contribuirei a provocare, è semplicemente risibile l’idea che esse abbiano bisogno di volantini, scritte sui muri, petardi o palline da tennis per continuare a scoppiare. Per quello, basta la violenza delle guardie e la follia di un Ministro degli Interni.
Qualcuno penserà  che in fondo me la sono cercata, che me la sono voluta. Anche, per esempio, con questa dichiarazione. A costoro rispondo con un sorriso, dicendo che il mio unico rimpianto è quello di non aver fatto abbastanza, e abbastanza bene. Proprio nei momenti come questo, momenti in cui è più evidente che la Legge è sempre dalla parte del più forte, del più potente, del più arrogante, momenti in cui un poliziotto può pensare di far ritrovare delle finte molotov per giustificare una carneficina, momenti in cui un pubblico ministero può pensare di telefonare a un giudice per raccomandare una severa condanna, proprio in momenti come questo i limiti stabiliti dalla Legge non possono rappresentare un vincolo per fare quello che ciascuno di noi ritiene giusto, e necessario. In fin dei conti, converrete anche voi, la libertà è sempre una questione di forza.

F.M. – Torino, 9 ottobre 2009

Prendo la parola per pochissimi minuti, perché è uno solo il punto che vorrei sviluppare in quest’aula e di persona rispetto alle richieste che vi ha presentato la Questura di Torino nei miei confronti. Degli altri aspetti di questa vicenda se ne può occupare meglio di me il mio avvocato nel quale ripongo piena fiducia.
Sappiate che mi costa un certo imbarazzo questo breve intervento. E già, perché qui vi debbo parlare non degli “episodi delittuosi” che mi hanno visto protagonista negli ultimi diciannove anni – per usare le parole della Questura. No. L’argomento della discussione di oggi sono io. Sono io con le mie scelte di vita e le mie attitudini. E come sapete è sempre imbarazzante parlare di se stessi. Ma altrettanto imbarazzante dovrebbe essere per un giudice discutere di cose impalpabili come le vite degli altri, come le scelte degli altri, e non di fatti materiali ed accertabili. E quando queste scelte che vengono messe sotto la lente d’ingrandimento sono scelte di campo nella lotta sociale, ecco allora che siamo di fronte ad un pauroso slittamento del Diritto e delle sue teorie. Slittamento che è indicativo di un’epoca e che conferma ciò che quelli come me hanno sempre pensato del ruolo concreto della Legge e dei tribunali nella Storia.

Veniamo al dunque. Nelle battute conclusive della lunga nota da lui redatta, il Signor Vicequestore Spartaco Mortola parla di me come di un individuo totalmente privo di scrupoli e di principi morali. Salto d’un balzo discussioni tediose sulla differenza tra etica e morale per dirvi solo questo: proprio perché sono un anarchico, proprio perché sono uno di quegli amanti spassionati della libertà che pensano che non debba essere la Legge a guidare i passi degli uomini, proprio per questo ogni cosa che faccio è ispirata a delle scelte etiche, a delle scelte di campo, ad una idea di giustizia precisissima ed esigente. Non posso dimostrare di esserci riuscito sempre e fino in fondo, certamente: ma che non mi si parli di “assenza di scrupoli e di principi”.

Del resto, se non avessimo “scrupoli” e “principi” né io né i miei compagni avremmo speso tanto tempo e tante energie per batterci contro i Centri di detenzione per stranieri senza documenti. Cosa ce ne viene, da questa lotta? Guadagni e promozioni? Visibilità sociale? Potere? Niente di tutto questo. A motivarci c’è solo la certezza che la libertà degli altri determini anche la nostra. La gente senza scrupoli va cercata tra chi li ha costruiti e chi li gestisce, i Centri, tra chi sorride di fronte ai pestaggi, alle umiliazioni, alle violenze. Non certo tra chi li vorrebbe chiudere per sempre.

Se proprio dobbiamo parlare di scrupoli morali e di principi, allora, parliamone sul serio. Chi ha redatto le note che avete tra le mani si chiama Spartaco Mortola e verrà ricordato per chissà quanti anni ancora per il sangue sparso sui pavimenti della Diaz nel 2001 genovese. È lui che è privo di scrupoli, non io. Il ministro degli Interni che gli fa da principale, poi, si chiama Roberto Maroni. Quello che ha detto che bisogna essere “cattivi con i clandestini”, quello che ha riso insieme a tutta la gente del suo partito di fronte alle stragi nel Mediterraneo di questa estate, quello che non ha fatto una piega quando gli sgherri di Gheddafi, per proteggere le nostre frontiere, hanno ucciso a coltellate e a colpi di bastone i profughi somali evasi dal campo di detenzione di Ganfuda. E mi si viene a parlare a me di principi morali e di violenza?
Ironia della sorte, anche il Pubblico ministero di questo procedimento, il dottor Padalino, ha le sue belle responsabilità. Penso solo alla legge – da lui tanto rumorosamente voluta e propagandata – che punisce chi si cancella le impronte digitali. Per colpa di quella legge sono finiti in carcere in Sicilia dei disertori dell’esercito eritreo che si erano abrasi i polpastrelli per riuscire a raggiungere i propri parenti nel nord dell’Europa. Uomini scappati dalla guerra e scampati al naufragio che finiscono in carcere appena sbarcati, tritati dall’isteria securitaria di questi anni oscuri. E sono io quello che non pensa alle conseguenze delle proprie azioni?

Vedete, c’è una distanza incolmabile tra personaggi come quelli che mi accusano e la gente come me e i miei compagni. Ed è data proprio da questo: noi gli scrupoli ce li abbiamo, noi non muoviamo passo se non siamo proprio sicuri che ciò che facciamo sia giusto fino in fondo, se non siamo sicuri che i nostri mezzi siano coerenti con i nostri obiettivi. Senza nessun interesse nascosto, senza ricercare il potere e neanche la fama. Gratuitamente, senza aspettarci nulla in cambio, solo per un senso di giustizia che sempre più spesso è completamente al di fuori della Legge.

A.V. – Torino, 9 ottobre 2009

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